Pubblicato da: Io Donna

La zuccheriera davanti a me è di quelle che c’erano in tante case di una volta. Quando “il servizio buono” aveva i ghirigori d’oro, i matrimoni duravano per sempre e noi bambini facevamo bei sogni. È l’unico oggetto che mi resta di mia madre. Sono passati così tanti anni, e io ero così piccola, che di suo, di tangibile, mi rimane solo questo. Viaggia con me da decenni, da una città all’altra, da una cucina all’altra, anche se non ho mai usato lo zucchero. Ho vissuto le ere geologiche dell’aspartame, del fruttosio e della Stevia, ma questa zuccheriera è sempre stata con me.

Perché è lei, mia madre, perché è un pezzo di me, perché sono io. Perché, anche se l’ho capito solo adesso, è la mia ferita. L’ho sempre spostata reggendola con due mani, cauta, per non farla cadere. Poi, un giorno, ho aperto un pensile ed è piombata giù una tazza, diritta sulla zuccheriera. La tazza è rimasta intatta, la zuccheriera si è rotta: le si è staccato un manico. Per quanto cerchiamo di proteggere quello che amiamo, non possiamo controllare tutto. È stata colpa mia. Ero altrove, non ero presente. Era la prima mattina in cui mi svegliavo e lui non c’era più. Ero entrata in cucina e avevo sentito – come una fitta – che non vi sarei più stata accolta dal suo sorriso, da lui che mi preparava il caffè anche se era l’alba ed ero io che dovevo uscire, mentre lui sarebbe tornato a dormire ancora un po’.

La zuccheriera di mia madre si è rotta la mattina in cui mi sono ritrovata di nuovo sola. E felice di esserlo, in teoria. Nei messaggi salvati sul mio telefonino, c’era lui che mi cantava una canzone per ogni notte che aveva dormito lontano da me. Di alcune, avevo sentito appena l’inizio. Non sempre avevo risposto con la cura o lo slancio appropriati. E, ora, la casa risuonava della sua voce, era piena di lui, che era stonatissimo. Simpaticissimo. Una sorpresa a ogni istante.

Ho sorriso, ma ho anche sentito che, per ogni canzone che non avevo ascoltato, mi ero negata un piacere, gli avevo dato un dispiacere. Perché, poi, la mattina, ho da guardare i Tg e leggere i giornali, correre, ricordarmi di spegnere il tostapane. La vita è una cosa seria. La vita non sono canzoni… È così che avevo lasciato che se ne andasse. Ho messo in salvo zuccheriera e manico in un cassetto, non so perché. Per giorni, per settimane, ho cacciato in gola la voglia di dire “sono a pezzi”. Ogni tanto, dovevo ripetermi che non era successo niente. Che era tutto a posto. Noi che siamo state ragazze negli anni ’80 ce l’abbiamo conficcato nel cuore questo malinteso senso dell’essere forti.

Ma gli anni Ottanta non c’entravano niente. Una sera, un’amica mi ha regalato un kit per il Kintsugi. Mi ha spiegato, tutta ispirata, che il Kintsugi è l’arte giapponese di riparare gli oggetti rotti con l’oro o l’argento affinché da una ferita possa nascere una forma di più alta perfezione estetica e interiore. Ha detto che fa bene come la psicoterapia, perché apre il cuore, aiuta a perdonare se stessi, a non ripetere gli stessi errori. Io ho pensato alla zuccheriera e alla parola ferita e mi è venuto all’istante un cerchio alla testa.

A casa, ho preso la zuccheriera rotta, ho disposto davanti a me il pennello, il barattolino con l’oro, mezzo bicchiere d’acqua per stemperare la mistura. Ho esaminato il manico monco e mi sono ricordata del mio osteopata che mi spiegava che, se hai una ferita, quello resta il tuo punto sensibile e ogni variazione esterna risuona lì. È per questo che, quando sta per piovere, lo sentiamo dal ginocchio che ci eravamo rotti sciando. Ho pensato che con la zuccheriera era successa la stessa cosa. Quella era la mia ferita, che ora risuonava di una nuova ferita. Erano due amori interrotti: quello con mia madre e quello con quest’altra persona.

Ho aperto a caso una pagina del libriccino delle istruzioni e c’era scritto che per noi occidentali, spesso, la rottura di qualcosa ha un’accezione negativa: dolore, vergogna, senso di colpa, fallimento. Per i giapponesi, invece, ogni storia anche brutta può originare bellezza e ogni cicatrice va mostrata con orgoglio. È il senso del Kinstugi: riparare i cocci con l’oro e l’argento significa rendere la cicatrice la parte più bella di quell’oggetto. Ho preso in mano la zuccheriera e l’ho guardata davvero per la prima volta. Ne ho percorso ogni ghirigoro, ho scoperto che ognuno era un fiore, e ho pensato all’ultimo bacio che non ho dato a mia madre. Quella sera di tanti anni fa. Ero molto felice, avevo giocato tutto il giorno, mi ero infilata nel mio lettino ancora ridendo con mia sorella e, solo tirando su le coperte, mi ero resa conto di non aver dato la buonanotte a mia madre. Ero già al calduccio e mi sono detta che le avrei dato due baci il giorno dopo. La mattina, però, lei non si è svegliata. Se n’era andata per un male fulminante e imprevedibile. Aveva 44 anni, io sette. Allora, la zuccheriera in una mano, il manico nell’altra, ho provato a mettere insieme i pezzi, perché anche a lui non ho dato l’ultimo bacio. Quella sera, e non era la prima, ero stata insopportabile. Avevo messo in scena il mio miglior teatro. Per non farmi amare, per non doverlo amare.

Anche lui ci aveva messo del suo. Ma ero stato io a sceglierlo. Ho come un senso da rabdomante per le persone che mi fanno male e a cui mi viene facile far male. Ho stretto il manico alla zuccheriera e ho capito dove nasceva il mio talento per l’autosabotaggio. Ho capito che a sette anni ero piccola, non così piccola da pensare che fosse stata colpa mia e di quel bacio mancato, ma abbastanza piccola da convincermi che ero stata cattiva e che non avevo meritato l’amore di mia madre. E poi anche quest’altra persona era uscita dalla mia vita, di nuovo senza che io avessi detto “oggi sono stata felice”, “dammi un bacio”. Ho capito che, quando lui mi mandava canzoni, io ero ancora quella bambina sgomenta, che si ripeteva che doveva essere forte, che doveva farcela da sola, che non aveva bisogno di nessuno. Non ascoltarle era il mio modo di non farmi coinvolgere. Il mio modo per non sentire il bisogno di quell’ultimo bacio della buonanotte. Ho pressato insieme il manico e la zuccheriera. I cocci aderivano alla perfezione. Sarebbe bastata una goccia di colla per riattaccare tutto, rendendo invisibile il danno. Ma se non accetti la ferita, se la nascondi, se pensi che essere tutta d’un pezzo sia un valore, non stai consentendo all’altro di avvicinarti e d’incontrarti. E, se non accetti le tue fragilità, non puoi essere sensibile alle fragilità dell’altro. Se sei così severa con te stessa da non concederti crepe, non puoi accettare le crepe dell’altro, puoi solo giudicarlo e quindi allontanarlo. La vita si ripete, se la ferita è sempre lì, e la ferita si riapre sempre nello stesso punto, se non l’hai cicatrizzata a dovere, se non ti ha insegnato qualcosa.

La ferita che si fa cicatrice palese con l’oro che risplende è il punto sensibile dove sai che puoi sentire la pioggia che arriva, è il punto sensibile che ti ricorda che sei imperfetta e che perciò puoi amare anche le imperfezioni dell’altro. È il punto sensibile in cui riconosci l’errore che non devi ripetere. La mia ferita era il luogo in cui s’incagliavano tutti i baci che mi negavo. Ma ogni ferita è diversa, ognuno ha la sua. Ho preso il pennello, ho stemperato l’oro sulla tavolozza e ho percorso quella linea, quella lungo la quale so farmi solo male e far male a chi mi ama. Ho steso la mistura e la cicatrice si è andata componendo, visibile più che mai: ora sono due giri d’oro sul manico di questa zuccheriera, sono queste parole che si vanno scrivendo troppo tardi, ma meglio ora che mai. La cicatrice d’oro luminoso è il mio cerchio alla testa che è sparito. È questa zuccheriera più bella di prima, che è mia madre, è lui, sono io, è un tutto che si tiene.

È un tutto fragile, ma chi lo prende fra le mani ora se ne accorge e ne ha più cura. È una sensazione di forza, di pace, di quiete. È la consapevolezza che si è forti solo quando si ammettono le proprie fragilità. È la sensazione profonda di essere qui, di essere io e che d’ora in poi posso far succedere solo cose belle. È il sorriso che ho sulle labbra scrivendo, perché io, ora, di nuovo, sento di potermi meritare gioia e amore. Di nuovo, mi voglio bene. È quest’oro che si va asciugando per ricordarmi che, se non mostri la tua cicatrice, la vita si ripete, la ferita produce ancora il suo veleno. Ma che invece è sempre ora, subito, adesso, il momento di rimettere insieme i cocci e ricominciare, ma da lì. Se no, sei sempre ferma in un luogo che è la tua frattura, un luogo in cui non sei, perché è fatto di vuoto, e di sgomento, non è fatto di te.

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