di Candida Morvillo

«Da bambino A 7 o 8 anni facevo gonne con gli scampoli di stoffa a un calciatore giocattolo. Un tale disse a mio padre: attento, che diventa omosessuale. Papà rispose: figurati, no La letteratura Oggi devi parlare bene dei migranti, delle donne e censurare il resto, ma così non si sfrutta la letteratura che, se va a fondo ed è seria, può tirar fuori cose spiacevoli Lo scrittore: ho imparato a leggere da solo in cortile.

Walter Siti è un raro esemplare di intellettuale che non teme di apparire peggiore di quel che è. Già stimato docente di Letteratura Contemporanea alla Normale di Pisa, è stato anche autore di «Al posto tuo», un programma tv non propriamente colto. Nei romanzi infila volentieri se stesso ogni volta che c’è un tizio schiavo di un’ossessione erotica per i culturisti. In La natura è innocente, dove ci sono invece un matricida e un attore porno, finisce per confessare che avrebbe voluto uccidere sua madre «per possedere tutti i pornoattori muscolosi del mondo». E quando ha scritto Bruciare tutto, dove ci sono invece un prete pedofilo e un bambino che si suicida perché quel prete lo respinge, ha spiegato che un bambino voleva ucciderlo fin dal primo romanzo. Gli chiedi se ha mai avuto tentativi di eterosessualità e risponde: «Naturalmente. Con una compagna al liceo, con due all’università.

Poi, da omosessuali, si possono avere incontri a tre o a quattro, ma non li chiamerei tentativi di eterosessualità». Gli chiedi quanto gli è pesata la passione per gli escort palestrati e lui: «So che il sesso con la persona che ami è diverso, ma anche quello non era male». Ha raccontato di quanto ha odiato il coetaneo e compagno di studi Marco Santagata, storico della letteratura, reo di essere stato, a differenza sua, di famiglia benestante e colta. Troppi paradisi, che l’ha reso famoso nel 2006, si apriva così: «Mi chiamo Walter Siti, come tutti. Campione di mediocrità». In realtà, lui si è sempre distinto. Leggeva e scriveva a 3 anni, è stato un enfant prodige della critica letteraria, ha curato i Meridiani di Pasolini, ed è l’unico scrittore che, se gli citi il Premio Strega che ha vinto (nel 2013, con Resistere non serve a niente, Rizzoli), anziché gongolare, inizia a raccontarti di un personaggio, quello del superboss, a suo avviso venuto male. Siti, chi è il bambino che voleva uccidere dal primo romanzo? «Forse io. Intendendo dire: riportarlo a una patria più confacente, toglierlo via di qua».Deduco che ha avuto un’infanzia infelice.«Piuttosto infelice dopo i sei anni. Prima, ero molto sicuro di me. Abitavamo in una casa colonica alla periferia di Modena e fra tante famiglie ero l’unico bimbo, mi coccolavano tutti. Mamma mi voleva bene, forse troppo. In cortile una maestra lasciava piccoli cubi con lettere e figure e avevo imparato a leggere e scrivere da solo. Il primo giorno di scuola, mia madre si vanta con la maestra. Che, con l’aria di dire vabbè, mi mette alla lavagna e dice: scrivi casa, cassa, gnomo… Poi: sciatore, soqquadro… Ho fatto le scuole come un animaletto ammaestrato. Gli altri scrivevano papà e gnomo e io giocavo a scacchi con la maestra. Piano piano, mi sono convinto che il mondo mi fosse nemico e io dovessi far finta, prendere tutti dieci, tenermi per me le mie cose, il sesso anche». Il sesso a sei anni?«L’analista ha detto che non ho avuto “il periodo di latenza” in cui la libido è dormiente. A sette o otto anni, facevo gonne con gli scampoli di stoffa a un calciatore giocattolo. Un tale disse a mio padre: attento, che diventa omosessuale. Papà rispose: figurati, no. E io pensai: povero papà, non sa che è già successo. Quando, ventenne, ho raccontato all’analista certi pensieri su mio padre, ha detto che non facevano bene a un bimbo di quell’età».Lei è del ’47. Accadeva nei primi anni 50.«Il ’68 era lontano. Quando nel‘62 o ’63 ho iniziato a dire ai ragazzi “sei molto bello, mi piaci”, mi sputavano in faccia senza troppi problemi. Dopo il ’68, da dirigente dell’Arci in Toscana, proiettai Un chant d’amour di Jean Genet, un film su un amore casto fra due detenuti. Un signore un po’ rustico disse: se lo rifate, mi dimetto dall’Arci. Non so come, ma sbottai: dimettiti subito, dato che io sono un tuo superiore dirigente e sono anche finocchio. Il giorno dopo, varcai la soglia della Normale, pensando: oddio cosa ho fatto. Un caro amico mi tolse il saluto. Un prof mi disse: lo sono stato anche io. Usò questo passato curioso, pensando che si potesse guarire».E lei l’ha mai pensato?«In principio, il mio approccio dall’analista era questo, ma lui mi esortò a guarire prima dalle cose importanti: non dormivo quasi mai ed ero timido al punto che, se parlavo in pubblico, mani e piedi s’indolenzivano e svenivo».Com’è che con questi trascorsi è finito a raccontarsi tanto crudamente nei suoi libri?«È stato terapeutico. L’analista, col quale mi ero lasciato lacrime agli occhi, quando gli ho mandato Scuola di nudo, ha avuto la bontà di scrivermi: per me la nostra analisi finisce qui».Perché esordisce da romanziere a 47 anni?«Per anni mi sono riempito occhi e testa di Balzac, Mann, Dostoevskij, erano di un’altezza tale che non ho neanche provato a scrivere. Pensavo che il mio lavoro fosse parlare dei libri altrui. Intorno all’80 ho iniziato a sentire che mi importava di più capire i nodi che mi si aggrovigliavano dentro. Cominciai a scrivere versi. Alfonso Berardinelli mi disse: sono troppo chiusi, si sente il bisogno di prosa. Così, fra l’82 e il ’94 , lavorai a Scuola di nudo, pensando: lo scrivo, ma nessuno lo vedrà. Poi lo feci leggere ad amici intimi e mi dicevano: se lo pubblichi, la tua carriera universitaria finirà».Di fatto, il protagonista era lei ed erano riconoscibili i suoi colleghi.«Mi ero chiesto che cosa mi interessava davvero. La risposta era stata: gli uomini nudi. Me ne vergognavo molto. In copisteria, a ritirare i capitoli ribattuti, mandavo un amico: non volevo che la dattilografa mi vedesse in faccia».È vero che per le polemiche su «Bruciare tutto» ha pianto?«Ho pianto perché il mio compagno leggeva su Facebook insulti assurdi in cui mi davano del pedofilo e ci restava malissimo».È l’uomo che è diventato poi suo marito?«Stiamo insieme dal 2011, siamo uniti civilmente dal 2016, uso chiamarlo consorte. Non ne parlo mai, perché lui tiene la cosa segreta sia in famiglia che al lavoro. Spero che prenda coraggio, ma non insisto».Marcello, il culturista della sua trilogia, esiste davvero?«Un personaggio così non avrei potuto inventarlo. Io dai 27 anni ho sempre avuto convivenze e rapporti lunghi, ma ho vissuto su un doppio binario, con una vita catacombale, sepolta, di saune, incontri di una notte. Marcello è stato l’unico ponte fra le due vite: l’ho conosciuto come escort ed è diventato la persona più importante della mia vita per alcuni anni».Sul serio ha fatto l’autore tv per pagare lui, che si drogava, voleva sempre soldi?«Per quello e per interesse intellettuale. Al Posto tuo prendevano storie vere e le televisionavano. In fondo è il mestiere di romanziere». Frequenta ancora il mondo catacombale? «Ho 73 anni, c’è il Covid, le pare possibile?». Quanto ha vissuto quella vita solo per poterla raccontare?«Fino a Scuola di nudo per niente. Scrivendo Un dolore normale, ho cominciato a immaginare una trilogia e a come viverla per raccontarla. Il punto massimo è stato Il contagio». Ha davvero frequentato il caseggiato di coatti e delinquenti di via Vermeer? «La via è inventata, ma non lo è il mio peregrinare per borgate per due, tre anni».E la fantasia di uccidere sua madre? «Riversava tutte le valenze affettive su di me. Questa cura eccessiva era tutto ciò che mi impediva di respirare. L’idea di studiare a Pisa nasce da questo. Lei, quando partii, per essere fedele al personaggio, svenne alla stazione». Che c’entra la passione per i culturisti con la mancata uccisione della madre?«Noto che i culturisti hanno vita stretta, pettorali e glutei imponenti: forme femminili nelle quali non si rischia di essere risucchiati». In primavera uscirà «Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura». Che libro è?«Ogni capitolo affronta scrittori di moda, con la voglia di reagire all’idea per cui la letteratura serva a fare del bene, a sviluppare solidarietà, libertà, giustizia. Oggi devi parlare bene dei migranti, delle donne e censurare il resto, ma così non si sfrutta la letteratura che, se va a fondo ed è seria, dice cose che l’autore non sapeva di voler dire. E può tirare fuori cose spiacevoli che possono anche fare del male».Lei che docente è stato?«I quattro quinti mi ritenevano un cialtrone, gli altri uno al quale raccontare le proprie cose private. Sa? A volte, leggendo dei brani in aula, mi veniva da piangere e non si fa».Mi dice un brano che la fa piangere?«Uno infallibile. Dai Fratelli Karamazov. L’incontro sotto il lampione fra Alëša e Ivan, in cui il primo dice al secondo: non sei stato tu. Si riferisce all’uccisione del padre. E poi dice: Dio mi ha mandato a dirti questo, so che ti sei sentito in colpa. E Ivan: allora, l’hai visto e come fai a sapere che lui viene da me? Intende il diavolo, perché solo il diavolo può avergli detto questa cosa. Insomma, non si intendono, i rapporti finiscono. E io piango perché, leggendo, capisco cosa è un fratello: è uno che, se il diavolo ti viene a trovare, lui lo sa». Lei ha una sorella, un «fratello» lo ha avuto?«Ferdinando Taviani, studioso di storia del teatro. Una notte in cui ho pensato di buttarmi dalla finestra, l’ho chiamato. Gli ho detto: devo venirti a parlare. Non mi ha chiesto nulla. Ha detto solo: fai piano a suonare il campanello». E cos’era successo?«Una delle cose che scrivo: non potevo vivere con una certa persona, ma neanche senza».Oggi, perché scrive? «C’è un passo di Hugo che paragona i mestieri di scrittore e minatore. Dice “succedono incidenti laggiù”. Quegli incidenti sono la cosa che mi interessa».

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